AMBIENTE (The book is on the table)
Ecco un altro estratto dal mio libro. Abbiate pazienza.
Mi sto divertendo un casino.
Sto rischiando di essere diseredato. Quindi semmai dovesse uscire tutti in libreria, così almeno mi pago un buon avvocato! 🙂
CAPITOLO “Non lo so ancora”
Non è male qui. Cioè ho tutto, di che mi lamento?
La casa ha un ampio ingresso con quello spazio per metterci le scarpe. Una sala da pranzo, una cucina abitabile per due nanetti, la camera da letto, la camera degli ospiti, la camera con il pavimento in tatami.
Il bagno, poi, sembra progettato da un alieno. Il gabinetto è dentro uno sgabuzzino. Spesso ho paura di toccare i tasti su quel cyber cesso e di finire in un’altra dimensione. I lavandini sono in bella vista nel corridoio e la vasca… la vasca è un piccolo centro termale che puoi telecomandare dalla cucina. È sufficiente che mia moglie schiacci un tasto vicino al forno e l’acqua parte da sola. Poi una vocina in filodiffusione ti avverte che la temperatura è stata raggiunta. Posso smutandarmi ovunque e tuffarmi nel relax. Ma attenzione, il sapone va usato solo fuori dalla vasca, così vuole il costume giapponese, non sia mai che la mia pelle morta sporchi quell’acqua così limpida.
Viviamo al quarto piano in un palazzo grigio alla periferia di Tokyo, dal balcone si vede una specie di alveare di cemento! Quando esco guardo sempre per terra, per non pentirmi di quanto ho fatto. Di solito sono le 7:05, né un minuto prima né un minuto dopo. Qui gli orari sono un’ossessione. Appena arrivo alla fermata della metro, dopo qualche secondo si palesa mia moglie Mariko.
Lei vuole farmi uscire per primo, perché dice che così mi responsabilizzo e che a far da solo si apprezzano di più gli sforzi. Tanto lo so che lo fa perché ha paura che i vicini pensino che io non mi sia integrato e che non abbia un lavoro “normale”. Quando mi raggiunge, ci salutiamo per la seconda volta. Poi lei sale sul vagone “per sole donne” e io in quello normale con tutti i mutanti di questa città. Solo una volta l’ho costretta a venire con me, ma lei ha paura dei maniaci, di quelli che fanno la mano morta.
Per noi la metro è croce e delizia.
L’avevo incontrata su quella di Roma qualche anno fa. Smarrita e con quella cartina piena di errori, domandava, nel suo inglese elementare, dove fosse il Colosseo. Io l’ho soccorsa, le ho offerto un po’ di acqua gasata dalle macchinette e l’ho accompagnata ovunque. Siamo stati in giro tre giorni, io come una guida, lei come una studentessa. Annuiva, anche senza capire. Mi faceva così tenerezza.
Poi come una rondine è partita e io sono rimasto come uno scemo, sempre in metro ovviamente. Ci siamo scritti per sei mesi e alla fine è ritornata solo per darmi un bacio. Un bacio da fotoromanzo, era più uno sfioramento.
Io ci ho provato a infilarle la lingua, ma lei doveva essersi spalmata la colla centochiodi sulle labbra. Mi sono messo a ridere. Io rido sempre.
Lo faccio per sdrammatizzare. Anche nelle situazioni più disperate ho il bigino personale, con le mie battute migliori. Lei invece stava con il capo chino, i capelli sulla faccia, ci mancava una telefonata sul cellulare e la voce che mi dicesse: “Morirai fra sette giorni”, e il mio incubo giapponese si sarebbe avverato. Invece mi ha chiesto scusa.
Non fai 13000 km per baciarmi e poi chiedermi scusa. In quei sei mesi avevo studiato un po’ di giapponese, ma l’unica cosa che ricordavo era “Stronza mi passi uno stuzzicadenti?”. Le ho preso la mano e l’ho riportata in albergo, si è inchinata per ringraziarmi e quando si è alzata, con le mani ho afferrato il suo viso e l’ho baciata veramente.
“Questo è un bacio Mariko”
È andata via manco l’avessi ravanata sotto la maglietta. Ora ho capito questa fascino per le lolite timide. Però il mio sangue pugliese, vittima delle sessioni settimanali su Youporn, mi ricordava che se per un bacio avevo aspettato sei mesi, per tutto il resto ci sarebbero voluti anni.
Ma avevo anche dalla mia parte il senso di colpa cattolico, un’entità romantica latente e una famiglia di diabetici. Quindi l’unico che maneggiava lo zucchero ero io.
Il mio diavolo tentatore mi sussurrava all’orecchio: “Se la giapponesina ha fatto questo viaggio per te, vuol dire che è la persona giusta”, mentre l’angelo meridionale continuava a ripetermi: “Mogli e buoi dei paesi tuoi”.
Avevo chiamato mia mamma per raccontarle di questa nuova frequentazione. Forse non avrei dovuto farlo. Con loro sono meglio le cose a fatto compiuto. Quella è gente che avalla ancora la fuitina, che buca i lobi delle bambine di tre anni e che mi ha costretto per decenni a versare litri di salsa di pomodoro nelle bottiglie di birra Peroni.
(continua)
Il Portinaio
In copertina sono ritratti lo shiba inu Kikuchiyo con il suo amico gatto Torajiro
Potete trovare il suo blog QUI