ただ、君を愛してる (#tiportoingiapponeconme)
Costa 3000 yen dormire con lei.
Puoi tenerla al tuo fianco e sentirla respirare. E’ vera.
Poi se la guardi negli occhi il prezzo sale a 4000, se appoggi la testa sulle sue gambe devi avere un portafoglio gonfio, sono 1000 yen ogni tre minuti.
Quanto costa non dormire da soli in Giappone?
Soineya: si chiama così, il locale dove affitti ragazze per tenerle solo sul letto. Non sono puttane, piuttosto miraggi nella solitudine. In teoria.
Poi quando torni a casa c’è solo un cuscino, una sola tazza, un solo spazzolino.
Potrei andarci stasera, obbligare Miss Tomoko a mettere il tuo profumo di Prada e far finta di essere con te.
Non mi funziona neanche il cellulare, avrei voluto chiamarti e dirti “Sono qui davanti a un ristorante koreano, prenoto per due? Ce la fai a raggiungermi?”.
Harajuku rimane la roccaforte delle lolite. Alcune osano ancora vestirsi da Baby The Star Shine Bright. Le guardo sedute in un bar, quando ridono si coprono la bocca, mangiano caramelle fluorescenti e il loro trucco nasconde ogni minimo difetto. Non provano tristezza, sono waterproof.
Anche dall’altra parte dell’oceano ho scoperto che ci sono tracce di te.
Ti vedo imprigionata dentro un Ufo Catcher, dietro una vetrina di un negozio di giocattoli, sei appesa su una gruccia a Lumine Est, dormi all’ultimo piano del Palazzo del Governo di Tokyo.
Non sono fuggito per evitarti, credimi. L’ho dovuto fare. Volevo una prova.
Come puoi vedere il mondo ti ricorda.
Cammino svelto, tanto non mi vede nessuno. Solo gli stranieri fanno caso a me.
Sono nel periodo più bello.
La poesia dei Sakura dura pochi giorni. Ho cercato di comprenderla.
C’è un cartone animato che racconta la storia di due persone che non si dimenticano nonostante la distanza, s’intitola Cinque centimentri al secondo, ovvero la velocità con cui i petali di ciliegio cadono al suolo.
Se mi fosse concesso solo quel tempo per rivederti, cosa potrei dirti?
Sceglierei furbamente l’albero più grande, perché so che inizierei a balbettare. Porterei un ombrello perché i petali non si fanno sentire quando si appoggiano sulla testa e sembrerei ridicolo alla tua vista.
Poi il rosa non mi piace.
Ho provato a tenerli in mano, ma sono così delicati e leggeri. Perdono subito la loro intensità, si arricciano su se stessi e scompaiono.
Assomigliano agli Yukimushi. Conosci gli Yukimushi?
Sono insetti bellissimi. Assomigliano a dei fiocchi di neve. Vivono al nord e con il contatto del calore umano rischiano di morire. Si lasciano trasportare dal vento e il loro ondeggiare assomiglia a un petalo, che assomiglia alla neve, che assomiglia a un ricordo. Cadono senza lasciare traccia.
Qui è tutto così.
Nessuno marca il territorio. Manco i cani pisciano.
Milioni di persone attraversano una strada, ma è come se non ci passasse nessuno. Si annullano. Sono bravissimi a scansarsi. Non si sfiorano neanche.
Prendersi per mano è un gesto quasi rivoluzionario. Baciarsi poi.
Qual è allora il nesso? Tra la solitudine e i Sakura? Tra un insetto e l’amore? Perché i giapponesi dovrebbero meritarsi tanta bellezza?
Dicono che quando sei sotto un ciliegio la prima cosa che ti viene in mente è la persona che ami. E questi stupidi ci portano i colleghi di lavoro.
Dimmi c’è ancora vicino casa tua la passeggiata dei ciliegi? La chiamano così vero?
Per un attimo ho pensato fossi lì, per trovare una connessione con me. Poi invece mi sono reso conto che è una pessima imitazione di qualcosa che è difficile replicare.
Sono tanti 10.000 chilometri. Amare da lontano è qualcosa di profondo e lacerante.
Ogni giorno devi inventarti una storia, una battuta, un copione. Ti domandi: “Chissà se le piacerebbe questa cosa?”. Allora di getto la compri, fa niente se poi non riuscirai a pagare la bolletta, risparmierò il prossimo mese.
Potrei aggiungerti con Photoshop a tutte le foto che ho fatto. Ne ho quasi duemila.
C’è un gatto che si mette in posa davanti a me. Non scappa. Forse le anime dei giapponesi sono state rapite da loro. Ecco perché li venerano come se fossero degli dei.
Nelle librerie esistono decine di pubblicazioni sulla vita dei gatti. Come se fosse interessante sapere che il micio della signora Watanabe ha fatto la cacca e mangiato un topo il giorno della festa dei bambini.
Come stanno i tuoi? Hai mai pensato di farli parlare? Cosa direbbero di noi?
Non credo lo sopporterei. Già non tollero la gente che giudica, figurati gli animali.
Sai che qui esistono negozi al 47esimo piano? Non puoi scappare dal consumismo.
Non ti fanno godere neanche di un panorama.
Esisterà un luogo dove non c’è niente? Dove non sono trasparente? Dove mi possono vedere?
I rumori hanno qualcosa di nostalgico. Le parole si sovrappongono, sono incomprensibili. Il gracchiare dei corvi però non fa paura, le cicale piangono al tramonto e il suono della ferrovia ti avverte che altre migliaia di persone stanno transitando vicino a te.
Fa niente se non scenderai, io ti aspetterò comunque.
Dall’altra parte del ponte. Correremo sulle scale, magari il tuo menisco cederà al quinto scalino, ma sforzati in quel momento, fai un altro passo e la mia mano sarà lì.
I Sakura non hanno tempo e io non voglio assomigliare a loro. Ecco perché resisto. Alla pioggia, al vento e a quegli intercalari che non comprendo. Non mi ricordo neanche più come si dice in giapponese “Quanto costa?” che sarà differente da “Quanto mi costa?”
Le stagioni insegnano a cambiare, ma qui lo fanno solo con i nomi dei piatti.
Hanno così paura di essere fraintesi, interrogati e processati.
Ciò che trascuri diventa di qualcun altro. Ma questa regola non vale in oriente.
Qui mentono al dolore, si vestono di bugie e combattono la solitudine a colpi di applicazioni per il cellulare. Qual è il prezzo che hanno pagato perché tutto all’apparenza funzioni?
Poi ogni tanto qualcuno fa capolino dall’angolo del suo schema mentale e ti sussurra all’orecchio: “Hai bisogno?”.
E’ per questo che mi piace questo paese. Perché sai che prima o poi arriva quell’attimo di emozione. E penso sempre che sono stato io a chiamarla. Presuntuoso.
Tu sei arrivata così nella mia vita. Non è stata colpa dell’estate. E’ stata colpa nostra. Ci siamo scelti ogni giorno. Io la penso così. Che la fortuna ci ha baciato sulla bocca e ora ci prende a calci in culo perché facciamo resistenza.
I luoghi sacri sono solo un’altra pagina da aggiungere alla guida turistica, niente di più.
Come lo traducete in giapponese “Voglio dormire con te”?
Mi hanno guardato malissimo, perché è una cosa sessuale. Non c’è niente di romantico.
Ma lo sanno com’è bello addormentarsi sentendo il respiro dell’altro? Vedere le palpebre che si chiudono, sentire di colpo “Sei ancora sveglio?” e sperare che non arrivi mai l’alba.
Siamo nel Sollevante come può vincere la notte?
Il tempio ti vende un desiderio per qualche centinaia di yen.
Li chiamano Ema (絵馬) e hanno la forma di una tavoletta di legno. Sei libero di scriverci quello che vuoi. Poi sarà il Kami (神) a leggerlo. Ogni cosa ha uno spirito.
Ho chiesto al vento di venirti a bussare alla finestra, magari di aiutarti a ripulire il terrazzino che è sempre così in disordine. Non farà cadere le piante, si aprirà a forbice. Magari ti spingerà sulla strada giusta.
Ho preteso dall’acqua di scendere calda sulla tua finestra. Con il vapore dovrebbe rivelare la scritta che avevo fatto con il dito.
Pregherò al sasso di tenerti tappato il buco della lavapiatti, non vorrei che ti si allagasse ancora casa. Domanderò alla sabbia di rallentare il tempo per farti riuscire a prendere le palline da tennis sotto rete.
Le tue piante saranno sempre verdi e ti daranno più ossigeno per respirare. Il dado mi ha promesso di portarti fortuna, non sentirti sola, resisti ancora un po’.
Non scomoderò il sole per scaldarti. Per quello vorrei esserci io.
Io non ho desiderato niente.
Per questo ho scritto sul mio Ema una frase che renda eterno un tuo gesto. Perché io ti rappresento così. Sono sicuro che qualcuno lo leggerà.
C’è una cosa che però vorrei. Non è che mi porti al cinema di nuovo? Voglio percepire ancora quella sensazione di sentirmi osservato da te. Però non in 3D! 😛
Ti ho comprato un regalo piccolissimo, posso tenerlo in tasca. Quasi una scusa per averti vicino.
Ne ho preso uno talmente grande che mi darà problemi alla dogana.
Un altro mi si è rotto durante il viaggio, l’ho aggiustato con l’Attack e ora è come nuovo. Ho trovato una maglietta che ti starebbe benissimo.
Te li darò alla mia terza reincarnazione.
Il Portinaio
“Domani non mi sentirai partire amarti non è mica così strano” (M.B.)
Un commento
Da Vinci Leonardo
In fondo non è che la porta di casa.
Un metro di larghezza per due e cinquanta d’altezza. In realtà due d’altezza. I restanti cinquanta sono una sorta di aggiunta creata per far passare più luce. Peccato che io sia nato animale da penombra. La luce ci passa attraverso semplicemente perché quella dannata porta, dovete sapere, è fatta di metallo e vetro buggiardato. Non si possono riconoscere le persone.
A ferirla, trapassandola come lama, è solamente il chiarore del giorno così come le ombre, i profili, le sagome (chiamatele come volete) quelli sì che passano. Eccome. Da destra a sinistra, da sinistra a destra. Più da destra a sinistra devo dire. Chissà perché. E’ così e basta.
La gente non si fa domande di questo genere. Usa l’ombrello quando piove e si lamenta se c’è troppo sole. E poi cammina. In questo devo dire che eccelle. Cammina veloce perdendosi i dettagli di tutto ciò che la circonda. Senza mai guardarsi negli occhi. Senza sapere chi sta per incrociare o anche solo sfiorare. Tira diritto. Tutto qui. Questo riesce a fare. Oddio, di tanto in tanto si ferma. Sono le volte in cui qualcuno prova ad immaginare cosa ci sia oltre. Incuriosita, appoggia la mano di costa lo fa. Sbircia. Sbircia dentro.
La porta di casa. La via d’uscita. Il passaggio. Il tramite. Il limite ultimo tra me e chi sta dall’altra parte. Hey! Vi siete chiusi fuori! Vi dico che vi siete chiusi fuori!
Mi è venuto subito in mente leggendoti. E’ nel primo capitolo del mio ultimo romanzo. Ma tu non mi puoi venir fuori con 5 CENTIMETRI AL SECONDO….è la velocità con cui cadono i petali dei ciliegi. STO MALEEEEEE!!!! Bellissimo. Te ne dico un’latra allora. Nel 1906 un certo Okagura, scrivendo IL RITUALE DEL TE’ aveva capito che nel momento in cui per la prima volta qualcuno si era piegato per raccogliere un fiore e consegnandolo alla persona amata aveva tratto piacere…ECCO!…Quello fu l’istante in cui l’uomo per la prima volta abbandonava il suo essere animale per elevarsi e diventare qualcosa di più complesso: diventò…UMANO. Questo semplicemente perché capì l’importanza di un gesto apparentemente inutile. Ci aggiungo la bellezza dell’ossimoro insito in tutto questo: chinandosi…si elevò